A fare la differenza oggi sono soprattutto le narrazioni dei valori e le persone che li incarnano. Le aziende diversificano le strategie per reclutare le risorse più preziose e vendere di più

di Mattia Zanforlin, Responsabile Marketing OSM Partner Padova Mc2

 

 

Se il mondo cambia, cambia anche il modo con il quale devi comunicare ai tuoi clienti

 

Viviamo oggigiorno in un’epoca dove la specializzazione, sul larga scala, è ormai stata raggiunta in moltissimi settori da tempo.

Una volta, la sera, prima di uscire a cena con il nostro compagno o la nostra compagna, la domanda che più frequentemente ci si poneva, era: “dove potremmo mangiare meglio”?

Oggi, il mondo, è cambiato. È un mondo nel quale, ora, non ci si chiede più tanto dove si potrà avere il bene di consumo o il servizio migliore, quanto “dove potremo avere qualcosa in più”.

Quel qualcosa in più, non è un elemento di facile misurazione come può essere per l’equilibrio che si può scoprire in un piatto o la grande velocità di un’automobile sportiva che sognavamo di guidare fin dai diciott’anni: è un fattore legato all’emozione e alla creatività.

In sostanza, la riassumerei in questi termini: “È quell’elemento che, tanto nella vita privata quanto in quella lavorativa, ha l’incredibile potenzialità di poter farti guadagnare il massimo con il minimo (se riuscite a metterlo in pratica) sforzo.

Alla luce di questo, dunque, come fare crescere esponenzialmente il rendimento della tua azienda con questo Fattore? Vi consiglio di leggere quanto segue, in merito ad un nuovo metodo di fare marketing aziendale: l’Employer Marketing o People Marketing.

 

Il people marketing

 

Da Musk alla nuova normalità dei brand, veicolata con uno storytelling di volti e voci per informare, tranquillizzare, vendere. E anche attrarre. Il racconto parte dalle persone dell’impresa, schierate per intercettare l’attenzione dei talenti sul mercato. Si fa strada il “people marketing” incentrato sugli individui, sul loro vissuto, sui valori che incarnano. Un riflesso incondizionato legato alla perdita del luogo di lavoro, quello spazio fisico sostituito dal virtuale e da uno smartworking esteso.

«L’employer branding negli ultimi anni ha registrato un’evoluzione da strumento di recruiting ed engagement a strategia di mercato vera e propria. Agli obiettivi di attrazione dei talenti esterni e di fidelizzazione di quelli interni si sono aggiunti quello reputazionale e commerciale. L’employer branding non è più una pertinenza delle risorse umane, ma coinvolge anche marketing e comunicazione», afferma Antonio Incorvaia, autore di “Employer Branding” per Apogeo. Così la caccia ai talenti passa anche da azioni di guerrilla marketing. «Fino a ieri sarebbe stato impensabile immaginare che le persone potessero acquistare o meno un prodotto sulla base delle condizioni di lavoro di un’azienda. Oggi è ciò che succede e che è destinato ad incrementarsi nel futuro», precisa Incorvaia.

 

Dalla reputazione al business

 

Intercettare i talenti. In gioco c’è la reputazione e di riflesso il business. Lo certifica anche The RepTrak Company con una fotografia scattata in questo 2020 su 212 aziende in Italia appartenenti a venti settori differenti e viste con le lenti dei talenti che cercano lavoro. Lo studio è stato presentato in un incontro realizzato con Manpower Italia. «Oggi la reputazione dell’azienda è un asset strategico che produce impatti diretti sul business e quindi anche nella capacità di attrarre i migliori talenti. Inoltre prendere posizione su temi sociali, ambientali ed economici è fortemente richiesto da parte dei talenti: il 49% della scelta di andare a lavorare per un’azienda è basato sulla sua responsabilità e sulla leadership», afferma Sara Fargion, Vice President & HR Practice Leader di The RepTrak Company.

Lo segnala anche l’Harvard Business Review, calcolando come un’azienda con una scarsa reputazione è costretta a investire circa cinquemila dollari in più per ogni assunzione rispetto alle aziende con reputazione più forte. Ecco perché passare da ciò che il brand fa a ciò che il brand è risultato vincente per attrarre candidati molto più di salario e benefit. «Ambiente di lavoro, sviluppo professionale e riconoscimento non solo monetario pesano per il 51,3% sulla reputazione delle aziende come employer. Il restante 48,7% della scelta si basa su fattori più corporate. Oggi la trasparenza, l’eticità e la correttezza rappresentano elementi essenziali su cui le aziende sono valutate. Il prodotto rimane confinato come mezzo e non come fine», precisa Fargion.

Effetto domino dirompente. E un cambio di passo rispetto al passato, che vedeva come protagonista l’azienda. «Ora al centro della sensibilità di coloro che cercano lavoro c’è la persona: il fattore umano è una prerogativa di benessere per il singolo ma anche di garanzia di continuità del business Il lusso, le auto e la tecnologia fanno capolino tra i settori con maggiore reputazione. Ferrari e Google sono le aziende con una strategia di contenuto più efficace, mentre Accenture, Luxottica e NaturaSì mostrano una forte capacità di raggiungere il talento con i propri canali, stando alla situazione pre Covid19. Il tempo ci saprà dire se le aziende riusciranno a mantenere la loro performance anche in futuro», conclude Fargion.

Stoytelling per intercettare i talenti: il caso Heineken

«L’appartenenza esclusiva di una persona ad una azienda è un concetto del passato. Il concetto di fedeltà del consumatore si sta evolvendo e ora si parla di occasioni di consumo. Allo stesso modo da un concetto di appartenenza dei collaboratori si passerà ad un concetto di incontro, magari anche intenso, ma non eterno. Ecco perché l’employer branding avrà un ruolo nel futuro se saprà offrire soluzioni per questo incontro». Così Mario Perego, HR Director di Heineken Italia, in passato vincitrice dell’HR Innovation Award per l’Osservatorio del Politecnico di Milano.

Lo storico colosso olandese produttore di birra con centinaia di siti produttivi in oltre 70 Paesi del mondo ha lanciato già quattro anni fa Go Places, campagna di employer branding non convenzionale legata all’acquisizione di talenti e realizzata in collaborazione con 600 dipendenti. Obiettivo: guidare il candidato illustrandogli in una modalità innovativa ciò che rende l’azienda un posto di lavoro speciale. C’è stato poi “The Candidate”, una brand activation realizzata con Publicis e che ha stravolto le regole classiche del recruiting. E accanto ai progetti speciali una sterminata azione di ascolto e contatto con i talenti attraverso rete e social media. «In epoca antica si fondavano le città, oggi si fondano – ma in realtà si rifondano in continuazione – le imprese.

Ecco perché il futuro per l’employer branding sta nel cogliere la centralità del lavoro nella vita delle persone, riuscendo ad aggiornare la relazione tra individui e aziende. Perché l’employer branding da strumento per far conoscere l’azienda come datore di lavoro sta diventando un vero e proprio approccio integrato al corporate storytelling», precisa Perego, convinto che questo sia determinato dal salto tecnologico della nuova era del lavoro. «Tutto il processo di conoscenza e selezione dei candidati si è spostato online. Candidati e reclutatori hanno imparato nuove tecniche e nuovi galatei legati al diverso mezzo di comunicazione. È un percorso ancora in divenire in cui siamo tutti coinvolti e che porterà ancora altri cambiamenti. Finora l’acquisizione della cultura d’azienda da parte dei nuovi arrivati si basava sulla presenza fisica. Tutti ricordiamo i primi giorni di lavoro, le prime pause pranzo, le battute al caffè. Oggi le narrazioni sulle persone diventano ancora più centrali, sia perché ne sono la rappresentazione reale sia perché costituiscono un essenziale elemento di reputazione», puntualizza Perego. Ma se nella campagna “The Candidate” i candidati sono stati messi di fronte a situazioni impossibili, oggi per Perego la “mission impossible” è migliorarsi sempre, ogni giorno. «Conoscersi, conoscere la propria squadra, ammettere i propri errori e aggiustare velocemente quello che non va. Occorre essere agili, antifragili come dice Nassim Taleb, ossia essere adattivi, curiosi e ambiziosi».

Social che vai, brand che trovi

Così la reputazione passa sempre più spesso dai canali digitali. Lo evidenzia sempre RepTrak Company. Ma attenzione: emerge che gli owned media – sito aziendale e profili social dell’azienda – sono quelli che portano maggior valore con +7,5 punti incrementali di reputazione. Tra i canali spiccano Instagram, Twitter e il website, mentre all’ultimo posto troviamo le sezioni dei siti dedicati al recruting, i career day e LinkedIn con circa 4/5 punti incrementali. «Le opportunità legate all’employer branding sono molteplici: incrementare la produttività, assicurarsi i talenti migliori, acquisire un posizionamento distintivo rispetto ai competitor, rafforzare l’autorevolezza e la leadership. Ma ci sono anche dei rischi. Il primo è di confondere una progettualità strategica con una tattica. O ancora non conoscere nel dettaglio il proprio pubblico», dice Incorvaia. Tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare vasto della rete. E la coerenza risulta essenziale. È quanto è mancato recentemente sempre a Musk: il Washington Post ha raccontato di una dura presa di posizione tra l’imprenditore e le autorità locali di Fremont, in California. Qui ha sede lo stabilimento principale della Tesla. E sempre qui sono stati registrati diversi casi di coronavirus tra i dipendenti. Ma Musk si è opposto alla chiusura. E l’impatto reputazionale – secondo la stampa americana – è stato devastante.

 

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